Nella Repubblica Federale, il concetto di nazione tedesca venne bandito da ogni conversazione per decenni. Il popolo trovava la propria identità nella forza economica, e ciò è meno volgare e banale di quanto sembri a prima vista. La prosperità dei conti statali, l’inflazione che giunse fin sotto zero, il plus nell’import-export che arrivò al record di 110 miliardi di Deutsche Mark, sancendo il trionfo del Made in Germany, erano la prova delle antiche virtù tedesche: la laboriosità, l’industriosità, il risparmio. Ad alcuni clienti, la Mercedes consegna modelli senza indicazione della potenza del motore, considerata un’ostentazione squalificante: quel che conta è la reale forza nascosta all’interno della carrozzeria.
Nel gioco di specchi seguito all’unificazione (ancora i riflessi di Versailles), i ricchi dell’Ovest hanno riscoperto all’Est una Germania «da favola» nelle città che, abbandonate dagli urbanisti socialisti, rischiavano di andare a pezzi ma non erano contaminate dagli architetti postmoderni, come avvenuto ad Amburgo o a Düsseldorf, e con essa la Germania dell’infanzia (c’è un boom dei libri di viaggio nel tempo e nello spazio dedicati alle regioni ritrovate, e a quelle ancora perdute, come la Slesia e la Pomerania orientale). Le virtù del passato. E all’Est, pur nell’odio sempre più manifesto verso i Besserwisser, cioè «i signorsotutto dell’Ovest», con l’invidia si mischia il desiderio di emulare le virtù capitalistiche del successo economico, del cinismo finanziario.
Queste due diverse «nazionalità» da dopoguerra, nazionalità succedanee, come il caffè in polvere, pratiche ma con manchevolezze, si stanno confondendo in un nuovo senso nazionale, che ha poco a vedere con quello classico, se non esteriormente e ingannevolmente. E che ha i suoi riflessi su tutte le popolazioni d’Europa. «E una seconda chance per la Germania», osserva Fritz Stern, professore alla Columbia University, «che lascia questo secolo come vi era entrata: come grande, dominante forza nel centro del continente. Solo che questa volta deve sostenere meglio la sua parte…». «La piccola Repubblica Federale ha chance che il potente Kaiserreich, a cui appartenne metà della Polonia, e il forte Terzo Reich, che per alcuni anni controllò il continente, non ebbero mai. La controparte russa è paralizzata, si è giocata il suo credito panslavista nell’Europa orientale e si vede minacciata da forze centrifughe in casa propria», commenta Siedler; «l’Impero britannico non esiste più… II Giappone per un decennio fu la grande potenza dell’estremo Oriente, e aveva l’esercito più forte, l’aviazione più forte, e una temibile flotta. Ma per l’Asia divenne pericoloso per la prima volta, quando rinunciò a ogni potere militare e politico e non manovrò più corazzate ma cominciò a esportare auto, computer e impianti Hi-Fi.»
Certo, dopo le previsioni trionfalistiche del 3 ottobre ’90, la realtà è diversa. «La prima Repubblica fallì, e quindi arrivò il Terzo Reich. La seconda Repubblica non fallisce. Viene sacrificata all’unità. II primo anno della terza Repubblica rende scettici», osserva Wolfgang Herles in Geteilte Freude, «gioia divisa».
I tedeschi temono di non farcela: i conti della riunificazione superano ogni pessimistico calcolo. Duecento miliardi di Deutsche Mark all’anno. «Ottanta milioni di tedeschi che passeggiano sulla nostra testa, in un mondo senza parapetti come quello che si sta profilando, non dovrebbero tranquillizzare nessuno, anche senza bisogno di chiamare in causa i fantasmi del passato», scrive Saverio Vertone in Il ritorno della Germania.
L’unico errore da evitare è di chiamare IV Reich la Repubblica Federale dell’opimo Kohl, perché si finirebbe col trattare (o affrontare) qualcosa che non esiste. «Non voglio essere amato, voglio essere temuto», proclamò Hitler. I tedeschi di oggi sono come un enorme San Bernardo che si agita in salotto alla ricerca di comprensione.
In una recente copertina, «Der Spiegel», sotto il titolo Die unbeliebten Deutschen («i tedeschi poco amati»), mostra un ginnasta con la canottiera tricolore (il rosso, il nero e l’oro) che tiene con aria perplessa il mondo sul braccio. Sosteniamo la terra e ce l’avete con noi?, sembra domandarsi.
«Il mondo ha paura dei tedeschi, e i tedeschi hanno paura del mondo», scrive «Die Zeit». Su «Le Monde», Daniel Vernet osserva: «I tedeschi sono poco amati. Provocano critiche qualunque cosa facciano, se si astengono come nella guerra del Golfo, o se intervengono come in Jugoslavia. I tedeschi sono confusi dal loro nuovo potere. Ma questo è più simbolico che economico. La Wiedervereinigung ha portato più problemi che vantaggi. La Germania non si deve fare più piccola di quel che è. Deve accettare la propria forza, tuttavia senza atteggiarsi a maestra di scuola».
Dobbiamo temere che i tedeschi, com’era loro abitudine, tornino a insegnarci che cosa è bene e che cosa è male? In realtà, non lo sanno più. E le loro colpe, come negli anni Trenta, sono anche le debolezze degli altri. A Occidente, e a Oriente. Il pericolo vero non è che prima o poi i tedeschi, stanchi di crediti inesigibili, domandino: Königsberg quanto costa? In fondo è la città natale di Kant. Il rischio è che qualcuno gli proponga un prezzo.
Per il momento gli ottanta milioni di tedeschi «sulle nostre teste» non passeggiano. Se ne stanno depressi nelle loro case a schiera, nanetti di gesso in giardino, gli unici ad aver superato tutte le tempeste del tempo, e antenna parabolica sul tetto, non vanno né verso Est, né verso Ovest, non tornano al passato, né inventano il futuro. Si limitano a vagare in tondo. Speriamo che non gli giri la testa.
-segue-
Revisione del testo a cura di: Silvano Zais, ItalLingua
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